Bronnie Ware è un’infermiera
australiana. Ma un’infermiera particolare. Il suo compito è quello di assistere
le persone nelle loro ultime settimane di vita. «In genere da tre a dodici».
Malati terminali rimandati a casa dagli ospedali. Il lavoro di Bonnie è semplice
e complicatissimo. Somministra farmaci che servono solo ad alleviare il dolore e
passa le giornate a parlare con i suoi assistiti, uomini e donne costretti a
fare un bilancio della propria esistenza. Tempo scaduto. Non si può più barare.
Tanto non serve a niente. Lei fa sempre la stessa domanda: c’è qualcosa che
rimpiangi? Loro dicono tutti la stessa cosa: «sì, più di una».
Così l’infermiera Ware ha deciso di aprire un blog. L’ha
chiamato «Inspiration and Chai». Dentro ha messo tutte le risposte. Poi ha
scritto anche un libro e lo ha intitolato «I cinque rimpianti più grandi di chi
sta per morire». E’ andato a ruba. Che cosa abbiamo sbagliato nel nostro
passaggio terreno?
Finché siamo vivi diciamo cose balorde: ho
fatto poco sesso, pochi viaggi, pochi soldi. Quando stiamo per morire invece
diciamo la verità. O finalmente la capiamo.
Ecco, le cinque cose che i pazienti di Bronnie Ware
rimpiangono sono queste.
La prima: avrei voluto vivere la vita secondo le mie
inclinazioni e non secondo le aspettative degli altri.
La gabbia. Quella che la società ci butta addosso spacciandola
per inevitabile. Le regole balzane del vivere assieme. «Chi se ne sta andando
pensa ai desideri che ha realizzato. In genere sono meno della metà di quelli
che avrebbe voluto. Di chi è la colpa? La risposta è sempre quella: mia. Avrei
potuto, ho voluto, mi sono lasciato condizionare».
La seconda: non avrei voluto lavorare così
duramente.
L’ossessione. Esisto se emergo nella gara della competizione
professionale. «Questo è un problema sopratutto degli uomini. Ma anche nelle
donne sta cominciando a diventare centrale. Ci si chiude in ufficio e si perdono
di vista i figli che crescono, si dimentica il rapporto con il proprio compagno
e la propria compagna. In effetti ci si dimentica di sé».
La terza: avrei voluto avere il coraggio di esprimere i miei
sentimenti.
Il pudore. L’imbarazzo. Le regole predifinite delle relazioni
con gli altri. Il modo che vale più della sostanza. «Molti mi dicono: mi sono
tenuto dentro ogni istinto di ribellione, mi sono vergognato di dire la verità
al mio capo, di dire a mia moglie quanto l’amavo, ai miei figli quanto ero
orgoglioso di loro. Così mi sono perso, mi sono rinchiuso. E la mia frstrazione
ha finito per schiacciarmi, per rendermi infelice».
La quarta: avrei voluto restare di più in contatto con i miei
amici.
Le priorità sbagliate. Il mondo ci porta lontano dalle persone
che amiamo e noi diamo per scontato che sia così.
«Altro rimpianto comune: non
ho curato il rapporto con chi mi ha voluto bene. Ho sempre pensato: tanto sono
lì. Mi aspettano. Poi i miei momenti di solitudine si sono moltiplicati, proprio
perché avevo rinunciato a loro. Cioé a me. Cioé al mio mondo.
ANDREA MALAGUTI
Corrispondente da Londra - lastampa.it 11 febbraio 2012