lunedì 5 agosto 2013

Perché ci piace parlare di noi stessi

Un esperimento di risonanza magnetica funzionale sul cervello mostra che parlare di se stessi attiva le aree cerebrali legate a piacere e gratificazione. E poco importa se ci sia qualcuno ad ascoltare

In una conversazione che dura dieci minuti ne passiamo ben sei, in media, a parlare di noi stessi. E la cifra sale a otto quando il dialogo si svolge su una piattaforma di social media come Twitter o Facebook. È semplicemente questione di egocentrismo sfrenato, o alla base di tutti questi io, io, io c'è qualche ragione più profonda? Se lo sono chiesti gli scienziati dell'Harvard University Social Cognitive and Affective Neuscoscience Lab, scoprendo che parlare di sé stessi è fisiologicamente piacevole, perché attiva le aree neurali del cervello associate al piacere e alla gratificazione. Un meccanismo che funziona anche se non c'è nessuno ad ascoltare quello che si dice.

Per indagare il fenomeno, gli scienziati si sono serviti della risonanza magnetica funzionale (fMri), una tecnica di imaging cerebrale che evidenzia i livelli di attività in varie zone del cervello tracciando i cambiamenti nel flusso sanguigno. I ricercatori, come
raccontano su Pnas, in un primo esperimento hanno chiesto a 195 partecipanti di discutere opinioni e tratti della personalità propri e di altre persone, quindi hanno studiato le relative differenze nell'attività cerebrale. Spiccavano tre regioni neurali: la corteccia mediale prefrontale (il risultato meno sorprendente, dato che si tratta della zona generalmente associata ai pensieri legati a sé stessi), il nucleus accumbens (Nacc) e l'area tegmentale centrale (Vta). Ricordate cosa ci aveva raccontato in proposito David Linden, neurofisiologo statunitense tra i massimi esperti delle basi neurali del piacere? Il Nacc e la Vta sono le regioni cerebrali generalmente associate con i cosiddetti meccanismi di ricompensa, le sensazioni piacevoli e gli stati motivazionali relativi a stimoli come sesso, cocaina e buon cibo. Stando ai risultati dell'esperimento, dunque, parlare di sé sarebbe più o meno equivalente, dal punto di vista cerebrale, a mangiare il proprio piatto preferito.

Ma c'è di più. Gli scienziati si sono chiesti quanto questo risultato fosse dipendente dal fatto che ci fosse qualcuno ad ascoltare i propri vaneggiamenti egocentrici. Così, hanno chiesto a ciascun partecipante di portare con sé un amico e un parente e hanno ripetuto l'esperimento, dicendo esplicitamente alle cavie che alcune loro frasi sarebbero rimaste private e altre sarebbero state ascoltate dal compagno. I risultati della risonanza magnetica funzionale hanno mostrato che le aree del piacere si attivavano (anche se in misura minore) anche quando chi parlava era cosciente del fatto che non ci fosse nessuno all'altro capo della conversazione. Parlare di sé stessi, insomma, è intrinsecamente gratificante.

“Parlare di sé non è in contrasto con le funzioni adattative della comunicazione”, spiega lo psicologo Adrian Ward su Scientific American. “Anzi. Svelare informazioni private agli altri può aumentare i collegamenti interpersonali e aiutare la formazione di nuovi legami sociali, tutti fattori che influenzano la sopravvivenza fisica e la felicità personale. Parlare dei propri pensieri e della propria percezione, inoltre, può portare a una crescita personale grazie ai feedback esterni che si ricevono. Come altre forme di comunicazione, è un meccanismo che aumenta le probabilità di sopravvivenza e la qualità della vita. La scienza vi ha legittimato, dunque. Potete ricominciare subito a parlare di voi: dopo starete meglio. Ma cercate di non prendere troppo alla lettera i ricercatori. Trovatevi un interlocutore.
05 agosto 2013 di Sandro Iannaccone
(Credit per la foto: Corbis)